Fred
Vargas
L’uomo
dei cerchi azzurri
– (Edizioni Einaudi)
Collana:
Super ET
Formato:
Brossura
ISBN:
9788806250805
Pagine:
216
Nel
vasto panorama della giallistica un posto a sé è occupato da Fred
Vargas, pseudonimo ispirato al personaggio interpretato da Ava
Gardner nel film La
contessa scalza,
dietro il quale si cela Frédérique
Audouin-Rouzeau.
Un’autrice
davvero insolita, visto che fra l’altro proviene da un retroterra
decisamente diverso. Ricercatrice di archeozoologia al Centro
Nazionale francese per
le Ricerche Scientifiche (CNRS) e specializzata in medievalistica,
per cinque anni ha
studiato i meccanismi di trasmissione della peste dagli animali
all’uomo.
A
dire l’originalità di Fred Vargas, c’è una velocità di
scrittura che la pone in
secondo piano solo rispetto a Simenon e Scerbanenco. Pare infatti che
scriva tutti i
suoi romanzi in soli ventuno giorni, per poi operare la revisione del
testo nell’arco di
tre o quattro mesi con la collaborazione della sorella pittrice Jo
nel ruolo di
editor.
L’uomo
dei cerchi azzurri
è il giallo dell’autrice francese nel quale, per la prima volta,
fa la sua comparsa l’altrettanto insolita accoppiata di
investigatori parigini formata dal
commissario Adamsberg e dall’ispettore Danglard, due spiriti
diametralmente opposti.
Il
primo, come ama definirlo Fred Vargas, è uno “spalatore di nuvole”
che basa le sue indagini sull’intuizione e su un certo pensiero
laterale, o comunque non
convenzionale. L’altro, dalla mente quadrata, è tanto razionale
nel dedurre quanto fragile dal punto di vista umano, assillato com’è
dai suoi complessi.
I
due – antagonisti nello stile della detection
- si trovano coinvolti in una serie di
omicidi, nei quali l’assassino firma i suoi delitti tracciando con
un gessetto azzurro dei cerchi intorno alle vittime.
Fra
gli originali personaggi che popolano il romanzo spicca Mathilde,
dove è facile scorgere un’identificazione di Vargas. Quello che
però rende L’uomo
dei cerchi azzurri
caratteristico e diverso dal tradizionale giallo d’indagine è la
cifra stilistica con cui è scritto. Condotto con una vena ironica e
con una particolare maestria nel disegnare immagini inedite
attraverso i paragoni, pur senza trascurare l’accuratezza dei
dettagli si circonda di un alone di magia, che in alcuni tratti della
narrazione sembra quasi assimilarlo alla favola.
Una
notazione di merito, poi, va secondo me alla traduzione di
Yasmina Melaouah, fondamentale per il successo in Italia della saga di
Benjamin Malaussène, nato dalla fantasia di un altro autore francese
quale Daniel
Pennac.
Mi
trascino verso la città, e giuro che trascinarmi è la parola
giusta, perché sono tanto spompato che non troverei la forza per
fare un fischio.
Mi
guarda e si morde le labbra: ha la faccia che sembra un pezzo di
argilla maneggiato da un bambino.
Ha
gli occhi tondi come due piatti.
Le
chiedo se fa conto di andare da qualche parte e lei mi lancia
un’occhiata che
friggerebbe un uovo.
Il
commissario precedente era l’opposto. Sempre blindato nelle sue
riflessioni.
Il
commissario precedente rimuginava in continuazione. Invece Adamsberg
era esposto a tutti i venti come un capanno di legno, il cervello
all’aria aperta, insomma, pensò Danglard. È vero, era come se
tutto quello che gli entrava dalle orecchie, dagli
occhi o dal naso, che fosse fumo, colore, fruscio di carte, facesse
una corrente d’aria sui suoi pensieri impedendo loro di prendere
corpo. Questo qui, si disse Danglard, è attento a tutto, quindi non
presta attenzione a niente.
Danglard
era fatto così. Non si faceva problemi a borbottare frasi del genere
proprio davanti a coloro che accusava. Adamsberg, consapevole di non
saper essere altrettanto diretto, trovava utile che Danglard non
avesse timore di ferire gli altri. Timore che a lui spesso faceva
dire un sacco di cavolate tranne ciò che pensava.
E
per uno sbirro questo dava esiti imprevisti e sulle prime non sempre
positivi.
Poi
il vecchio Le Nermord si sfregò gli occhi con una manica
dell’impermeabile, come un vagabondo, come se abbandonasse tutto il
prestigio che aveva impiegato anni a costruire.
Quando
ci cammini dentro, il bosco fa rumore.
©
Marcello Sgarbi